Estetica delle percezioni visive

Estetica delle percezioni visive

ESTETICA DELLE PERCEZIONI VISIVE

Dal 14 aprile al 25 maggio 2018
Inaugurazione sabato 12 aprile ore 15.00

ALBERTO BIASI
HARTMUT BÔHM
GIANNI COLOMBO
CHRISTIAN MEGERT
NANDA VIGO
GÜNTER WESELER

In occasione di Open Gallerysabato 14 aprile dalle ore 15.00 alle 20.00, la Galleria Allegra Ravizza inaugurerà la mostra Percorsi d’arte: estetica delle percezioni visive.

La mostra, prima di una serie di percorsi didattici che la Galleria ha deciso ti intraprendere analizzando i temi principali delle avanguardie artistiche a partire dagli anni ‘50, parte proprio dal radicale cambiamento a cui lo spettatore ha dovuto imparare ad adattarsi a partire da quegli anni: le percezioni visive.
La percezione è un insieme di visione e movimento che avviene in ognuno di noi automaticamente e la visione che noi abbiamo dell’arte è profondamente cambiata nel corso della storia adattandosi al cambiamento che questa ha avuto nei secoli crescendo assieme all’evoluzione dell’uomo.

La semplificazione è da sempre una delle ragioni che ha portato a continue ricerche e stravolgimenti radicali nei contenuti e nelle percezioni visive. A partire dal XX secolo la semplificazione e lo studio dei rapporti tra l’opera e lo spettatore sono stati temi cruciali delle avanguardie storiche, nell’arte astratta, nei movimenti razionalisti e in tutte le neoavanguardie. I monocromi, i nuovi materiali, la luce o l’assenza di luce e addirittura i vuoti, i tagli, i buchi, sono elementi entrati nella storia dell’arte per stravolgere ciò che si era sempre identificato precedentemente con “arte”. Nelle avanguardie inizia ad insediarsi una radicale volontà di cambiamento, di azzeramento, diventando a partire dagli anni Cinquanta e Sessanta una delle leve più interessanti nel processo di trasformazione. Il Gruppo Zero parte proprio da questo: la volontà di ricominciare e resettare tutto ciò che il passato aveva creato, un countdown verso una nuova ricerca di silenzio e purezza.
Quando si parla di percezione in ogni individuo si attiva una interpretazione di un insieme di sensazioni che rappresentano l’oggetto e ci aiutano a comprendere l’opera d’arte. Ma se la percezione si riferisce sempre ad un oggetto reale, l’immaginazione è l’esperienza di immagini interiori; imprescindibile è che in ogni percezione c’è sempre una parte di immaginazione che attinge alle nostre esperienze personali ed è completamente soggettiva. La percezione non è quindi una semplice lettura della realtà ma ne è una sua interpretazione.
In tutta l’Arte Cinetica e Programmata, nel Gruppo Zero, nel Gruppo N, e nelle molte correnti che si sono intersecate a partire dagli anni Cinquanta, lo spettatore viene messo in primo piano, e viene spinto ad interagire con l’opera fino quasi a modificarne l’essenza. Siamo noi ad attivare l’opera.
L’esperienza estetica è connessa con il fatto di aver dato forma a qualcosa che è stato dentro sé stessi, che parte dal nostro io e dal nostro vissuto, prendendo così vita e diventando reale nell’opera d’arte.
Con le Avanguardie degli anni ‘50, diviene centrale lo studio dei nuovi materiali, tanto da essere presi da campi prima mai contemplati per l’uso artistico, come dal mondo industriale e gradualmente irrompono nell’opera d’arte. Ogni materiale, grazie alle sue diversità, possiede delle potenzialità specifiche che noi percepiamo in base alle nostre sensazioni e al nostro vissuto.
La ricerca stessa sulla luce sfocia in un automatismo metodico sulla materia. Il vetro, lo specchio, il PVC, sono materiali che permettono alla luce di infrangersi e generare spazi e riflessi sempre nuovi e mai uguali.
Nanda Vigo nei sui Cronotopi cerca proprio questo: la creazione di gate spazio-temporali, stimolatori sensoriali che ci conducono oltre la quarta dimensione. Veniamo dirottati in dimensioni fatte di infinite possibilità combinatorie in cui perdiamo la nostra percezione sul reale. La ricerca delle progressioni spaziali diventa matematicamente prevedibile ma allo stesso tempo mai certificabile, mai certe, e totalmente incontrollabili viste le infinite variabili di luce che investono l’opera.
Un esempio di complessità visiva e percettiva avviene negli Spazi Elastici di Gianni Colombo. Colombo nella sua idea di deformazione dello spazio, scompiglia la rigidità della griglia matematica e prospettica e crea un ambiente in cui avviene un dialogo tra lo spazio, l’equilibrio e la dinamicità, mettendo in crisi le entità corporee. Nella perfetta semplicità delle forme geometriche, avviene la creazione di uno spazio individuale e oggettivamente decontestualizzato. Le sue sono mappe di transiti che presuppongono un ordine chiaro solo allo spettatore, unico vero agente estetico dell’opera assieme alla sua personale esperenzialità.
Iniziano ad irrompere nelle opere gli ingranaggi, i motori, rendendo le opere vitali, come accade in tutta la ricerca artistica di Günter Weseler. Il suo studio è stato affascinato e tormentato dal respiro, analizzandone ossessivamente le variazioni che su ognuno di noi avvengono in base ai nostri stati d’animo e fisici arrivando alla creazione dei suoi Atemobjekt, oggetti respiranti, provocando un totale spaesamento percettivo nello spettatore.
Nelle opere di Alberto Biasi, si crea invece un movimento percepito a livello visivo, generato da una continua instabilità visuale data dalle torsioni delle lamelle in PVC su supporti di colori differenti. Opere statiche, ma contemporaneamente in continuo movimento, in cui ognuno di noi vede giochi di colore e movimento differenti. Questa corrente viene chiamata per l’appunto Optical Art.

La scelta del bianco e del nero, predominanti nel percorso espositivo della mostra, sta proprio negli spostamenti di attenzione richiesto dall’osservatore: impongono di rallentare, di guardare più volte da vicino, di ispezionare le variabili del colore, la luce, le texture, la riflessione nei vetri e negli specchi. Nessun bianco è mai veramente bianco e nessuno nero è mai totalmente nero. Sono varietà di cromatismi, non-colori che per definizione contengono tutti i colori esistenti.
Uno dei motivi per cui l’arte nel corso della sua storia contemporanea ha ricercato costantemente la semplificazione e il ripartire da zero, come ad esempio la scelta di utilizzare tele monocrome bianche o nere, è dato dall’astrazione che nel tempo ha avuto lo spazio stesso, sia dell’opera che degli spazi espositivi, e la possibilità di dare al soggetto artistico e allo spettatore totale libertà visiva.

Tra opera e spazio esiste una dialettica imprescindibile, un rapporto osmotico bidirezionale che fa del White-Cube l’immagine astratta della semplicità degli spazi espositivi contemporanei, un contenitore asettico per un’arte che richiede la massima attenzione – e interazione –  dello spettatore.
Nei Framework di Christian Megert accade proprio questo: una delimitazione e frammentazione di uno spazio casuale, che si muove in base al nostro movimento, che viene racchiuso in base alle nostre scelte. E lo stesso Hartmut Böhm contempla un’arte senza limiti, in cui l’opera non abbia confini se non una griglia di partenza che ne stabilisca un inizio, ma che poi la luce nell’irregolarità della tela, ne renda unico il movimento nello spazio.

La percezione che noi attiviamo di fronte all’opera è fatta di pensieri e di esperenzialità che permettono all’opera stessa di modificarsi e restare attiva. Vivere nello spazio e con lo spazio in quanto “Ogni percezione è anche pensiero, ogni ragionamento è anche intuizione e ogni osservazione è anche invenzione.”